Si chiamava Gian Carlo Melchiori, ed era nato a Sezze Romano nel 1613. Passò la gioventù in quella cittadina alta sui monti Lepini, lambita dal mare verde dell'Agro Pontino. A 22 anni entrò in un convento francescano. Fu novizio a Nazzano e frate in vari luoghi della provincia romana, ma non giunse mai ad essere sacerdote. Restò semplice fratello converso, frate cercatore, frate ortolano, frate cuciniere.
Avrebbe desiderato di partire con i missionari per l’India, ma non vi riuscì. Restò a Roma, ultimo tra i frati del convento .di San Francesco a Ripa, ma primo nell'obbedienza, nella castità, nell'umiltà. Un vero francescano, con l'anima invasa da mistica letizia.
Per comunicare anche agli altri quella letizia, s'improvvisò poeta, scrivendo versi semplici e commossi, in una vena popolaresca, di saporoso accento laziale. Per quelle poesie, San Carlo da Sezze può essere considerato un lontano erede di Jacopone da Todi, il « pazzo di Dio », ma di una pazzia dovuta alla piena dell'amore divino.
Chi non conosce te Amore
Chi non gusta te Amore
Non sa che cosa è Amore.
Amor mi fa cantare
Amor mi fa saltare
Amor mi fa gridare.
Anima innamorata Carità hai ritrovata
Del tutto sei abbruciata.
Tutta ti sei annegata
Tutta ti sei irrigata
Tutta ti sei illustrata.
Per quanto « scrittore senza lettere », come egli stesso si definiva, l’umile francescano di Sezze scrisse molte opere. In gran parte sono ancora inedite; altre sono andate perdute. Tra quelle conservate e pubblicate c'è la sua Autobiografia, scritta con serafico candore per ordine del confessore.
E nell'Autobiografia si legge questo brano, che risale alle sue prime giovanili esperienze di « cucinaro di San Francesco »:
« Mentre andavo così felicemente nel divino servizio, Dio benedetto, che conosce e sa la nostra fiacchezza, mi pose in questo esercizio un piccolo contrappeso, che fu il rompersi dei vasi della cucina, come sono pignatte, catini, piatti e scodelle. Il che non mi fu di poca mortificazione, perché volendo alcune volte pigliare alcuni di detti vasi, benché stessi molto avvertito, si rompevano. Fra le altre, avendo levata dal refettorio una tavola di piatti, per riportarli in cucina, non so come mi cascò, senza che un piatto restasse pur sano. Quello che in questo fatto mi affliggeva più interiormente era che il padre guardiano ne sentiva disgusto; il quale non avrebbe voluto che gli altri frati mi avessero tenuto per un balordo. Per questo, molte volte mi ammoniva caritatevolmente in segreto, ordinandomi che non mi ponessi più alcuna cosa rotta al collo, nel refettorio, per riceverne la penitenza, come per consuetudine si segue a farsi dai frati giovani ». Delicatissimo episodio, nel quale non si sa cosa ammirare di più: se la mortificazione del futuro Santo, crucciato dal « contrappeso » di quei piatti che seguitavano a rompersi, o l’affettuosa sensibilità del superiore nell'evitare al giovane « cucinaro » il sarcasmo degli altri frati, aggiungendo umiliazione a umiliazione, e penitenza a penitenza!